foto di Laura Saviano

giovedì 16 ottobre 2014

L'emigrazione ai tempi di Skype

Il nuovo sottosegretario al Ministero degli Esteri del Governo del Fare, ha detto che oggi l'emigrazione degli italiani all'estero non è un fenomeno importante.
Solo nell'ultimo anno oltre 90 mila italiani hanno lasciato il Bel Paese in cerca di lavoro fuori dai confini nazionali. Ma, secondo il nuovo sottosegretario al Ministero degli Esteri del Governo del Fare, questa non può essere considerata emigrazione. E' semplicemente una scelta. Ogni anno 90 mila italiani decidono, così, per capriccio, di andare a vivere all'estero. Del resto si sa, siamo un popolo di santi, poeti e navigatori. Siamo fatti così, ci piace viaggiare. E poi, aggiunge il nuovo sottosegretario al Ministero degli Esteri del Governo del Fare, oggi non è più come una volta, quando i nostri nonni prendevano la nave per andare in America, con tutti i rischi e i pericoli che c'erano un tempo. 
Le navi affondavano, esistevano malattie inguaribili, si moriva di fame. Adesso, restando seduto, con un aereo in poche ore sei dall'altra parte del mondo. Troppo facile. Non muore più nessuno. Così non c'è gusto.
Pensate invece a quei poveri africani che muoiono tutti i giorni nel canale di Sicilia per arrivare in Italia, quelli sì che sono veri immigrati, loro sì che hanno le palle. E se qualcuno muore ne siamo rammaricati ma è il rischio che si corre quando si vuol fare per forza l'immigrato. Sono le regole del gioco.
Gli italiani invece possono tornare quando vogliono, non sentono nemmeno la mancanza di casa perché tanto ormai c'è Skype, il progresso è proprio una bella cosa.
E noi, che siamo il Governo del Fare, i nostri giovani li lasciamo fare, li facciamo andare in giro per il mondo, che li fa tanto bene conoscere, scoprire, parlare nuove lingue.
Fanno i camerieri a Londra? Anche il nuovo sottosegretario del Ministero degli Esteri ha lavorato come cameriere da giovane, cosa credete? E' uno partito dal basso. E all'epoca non c'era ancora Skype e qualche nave affondava ancora e Ryanair non esisteva neppure. Eh sempre fortunati questi giovani.
Sa, noi siamo di ampie vedute, noi abbiamo un profilo internazionale, il nostro premier parla fluentemente quattro lingue più il fiorentino.
E poi se i nostri giovani partono vorrà dire che quando ritorneranno si saranno arricchiti di nuove esperienze e contribuiranno ad arricchire il nostro paese. 
Siamo un Paese bellissimo e puntiamo sui giovani, sono il nostro futuro. 
I giovani ci piacciono così tanto che abbiamo deciso di allargare la fascia Gioventù fino a 45 anni. Adesso fino a 45 anni sei giovane. Puoi farti le tue esperienze. 
Per i giovani poi abbiamo messo a disposizione una serie di iniziative molto importanti per la loro crescita, anche per quelli sfigati che decidono di restare. Li facciamo fare un sacco di stage, di tirocini, un sacco di volontariato, di servizio civile, tutto più o meno gratis perché devono imparare l'importanza di fare del bene al prossimo gratuitamente. Siamo o non siamo un Paese cattolico?
In Italia non c'è lavoro? Siamo in ripresa, bisogna essere ottimisti.
La disoccupazione giovanile è al 44%? Sì ma solo perché ci sono un sacco di lavori che i nostri giovani non vogliono più fare.

Sa, a loro piace viaggiare. So' ragazzi.

venerdì 22 agosto 2014

Passàrgada

Il vento soffiava forte sull'accampamento. I teepee si dibattevano come vele sferzate dalla tempesta. La tribù intera aveva deciso che non c'era più tempo per aspettare, anche se tra poco avrebbe fatto buio e il fuoco attorno a cui erano riuniti si era spento e le nuvole che correvano verso di loro non promettevano nulla di buono.
Toro Seduto osservava il fumo fuggire a nord-est disperdendosi nell'aria densa di umidità. Gli bastò un'occhiata al cielo per capire che da lì a qualche minuto sarebbe iniziato a piovere. Dall'alto delle sue sessantaquattro primavere era stato riconosciuto come guida delle tribù, un ruolo che non gli era mai andato a genio, e per questo, anche quella sera, mal sopportava l'idea che tutti pendessero dalle sue labbra.
Mompracem era diventata una riserva arida. Più di quattro anni fa avevano deciso di impossessarsi di quella terra desolata, aspra, brulla, dove l'estate il sole bruciava la pelle e l'inverno il freddo vento del nord pungeva come aghi nella carne. Avevano rifiutato ogni compromesso con l'uomo bianco, mai avrebbero lavorato per lui, mai si sarebbero inchinati ai suoi sporchi giochi di potere. Lo avevano combattuto con le pochi armi di cui disponevano, resistendo ad ogni suo assalto ogni volta con sacrifici più grandi. Avevano cercato in tutta quella riserva arida una zona dove potersi fermare, senza mai trovarla, e così dopo anni di peregrinazioni e nomadismo la sua gente aveva fame, era stanca di quegli inverni rigidi trascorsi a mangiare patate e combattere i nemici che venivano da ogni parte. Ma nonostante tutto la sua tribù non aveva perso lo spirito ribelle e nessuno voleva ancora arrendersi all'uomo bianco.
Quella sera Toro Seduto aveva deciso che eccezionalmente anche le donne avrebbero preso parte alla riunione, nonostante il disaccordo degli altri capi indiani, e tutta la tribù, uomini, donne, vecchi e bambini, adesso sedeva in cerchio attorno ad un fuoco incerto mentre gli ultimi bagliori del sole si esaurivano aldilà dei monti, lontano dal grande accampamento.

“Abbiamo perso, questa è la verità, non possiamo più vivere così. Abbiamo combattuto contro tutti, e cosa abbiamo ottenuto? Nulla. Siamo sporchi, malati, senza niente per cui vivere, niente da commerciare, Mompracem è stata un fallimento!”. Esordì Nuvola Rossa senza aspettare che la riunione avesse ufficialmente inizio “Dobbiamo andarcene di qui al più presto”.

“Sei un folle!” Attaccò Dieci Orsi, “Conosci un altro posto che non sia stato preso dall'uomo bianco? Vuoi forse vivere nel suo mondo?”. Io piuttosto morirò qui. Dobbiamo resistere, che ci piaccia o no, questo è l'unico modo in cui possiamo vivere, aldilà di quelle colline c'è solo l'avarizia, lo sfruttamento e il denaro degli uomini con i fucili.

“Fra poco torneranno di nuovo e questa volta ci stermineranno tutti se restiamo ancora qui.” disse Nuvola Rossa.

“Io starò qui ad aspettarli.”
“Morirai”
“E qualcuno di loro verrà con me.” disse Dieci Orsi sputando in terra.

Toro Seduto ascoltava con calma, fumando il suo calumet, avvolto in una grande coperta. Si era immaginato che gli animi si sarebbero scaldati subito ma era stupito di come Cavallo Pazzo ancora non fosse intervenuto. Se ne stava vicino al fuoco che non riusciva a scaldare, imprecando contro il vento e gli dei, ammassando pietre intorno a quella piccola fiammella che i piccoli squaw cercavano di tenere accesa. Per lui le parole non avevano mai avuto molta importanza, era un uomo d'azione, che preferiva i fatti ai discorsi. I suoi occhi scuri lampeggiavano costantemente di un furore intenso, e le poche volte che parlava, si facevano più grossi come se fossero sul punto di esplodere.

Con un lento gesto della mano Toro Seduto chiese la parola, e d'improvviso i due contendenti ammutolirono.

“Mio padre Bisonte che danza, nella sua breve vita mi ha lasciato alcuni insegnamenti importanti, e adesso è giunto il momento di condividerli con voi. Quando avevo undici anni mi trasmesse le sue conoscenze sull'arte della guerra. In poco tempo imparai a cavalcare, a usare l'arco, a combattere con il pugnale e ad affrontare qualsiasi cosa con coraggio e determinazione. Ma ricordati, mi diceva, la massima abilità di un guerriero è quella di sconfiggere il nemico senza combattere.”
“Io credo che sia finito il tempo di andare contro l'uomo bianco. Finché lo combatteremo con l'odio sterminatore degli spiriti malvagi che lui usa su di noi, non potremo mai vincere
Non sconfiggeremo mai l'uomo bianco se continueremo ad usare le sue stesse armi. Non dobbiamo andare contro l'uomo bianco, dobbiamo andare oltre l'uomo bianco.

“Che cosa vuoi fare allora vecchio?” lo interruppe furente Cavallo Pazzo.

“Io propongo di deporre le armi, oltrepassare quelle colline, e cercare nuove terre fertili.” disse Toro Seduto.

“Ma aldilà delle colline vive l'uomo bianco! Ci uccideranno, ci stermineranno!”, sbottò Nuvola Rossa “Non riusciremo mai a vivere con loro”.

“Ci vestiremo come loro, faremo finta di comportarci come loro, l'uomo bianco è stupido, quando avremo assunto il suo aspetto ci lascerà in pace. L'uomo bianco non sa vedere che con gli occhi.” disse Toro Seduto.

“E' una follia, così facendo tradiremo noi stessi, le nostre radici, la nostra storia” si oppose Piedi Neri, “Tu vuoi tradire il tuo popolo e interrompere il nostro cammino lungo la strada che porta alla felicità.

“Non esiste una strada verso la felicità. La felicità è la strada. Io non voglio tradire nessuno. Se portiamo la pace e la forza dentro di noi non ha importanza dove andremo, tutte le strade ci porteranno nel posto giusto. Possiamo essere felici ovunque. Non abbiamo più bisogno di nasconderci nelle nostre tane, di vivere con la paura dell'uomo bianco.”

Udendo queste parole un gran vociare si diffuse nella tribù, alcuni davano cenni di assenso con il capo, altri, sopratutto i più giovani scuotevano la testa torturandosi le mani dalla rabbia.

“Queste sono le parole di un codardo” disse Nuvola Rossa con disprezzo. “Tu ci stai tradendo”.

“Tradisce solo chi rinuncia ad essere felice.” gli rispose impassibile Toro Seduto.

“Ho sentito parlare di una valle, a ovest delle Cime Nevose dove il sole splende ogni giorno dell'anno. La chiamano Passargada.” disse Dieci Orsi. “Me ne parlano da quando ero bambino e ho sentito dire che laggiù il grano cresce altro tre metri e le mandrie dei bisonti sono così grandi che quando si muovono senti la terra tremare e gli uomini non conoscono la guerra e lavorano insieme condividendo tutto quello che producuno. Potremmo provare a cercare quel posto.”

“E' troppo pericoloso, ribattè Piedi Neri, e poi non sappiamo nemmeno dov'è, non conosciamo nessuno che ci sia mai stato.”

Ma la tribù andava eccitandosi all'idea di lasciare le fredde e inospitali terre di Mompracem e grida di giubilo si levavano al cielo mescolandosi allo scoppiettio dei ceppi accesi. “A Passargada, a Passargada !! “ gridavano entusiasti molti, senza avere la minima idea di come potevano arrivarci.

“Conosco quel posto, disse Toro Seduto.” Poi fece una pausa e lentamente aspirò il fumo del suo calumet. Tutti gli occhi erano puntati su di lui.

“Che aspetti vecchio”, disse Cavallo Pazzo, “dicci dov'è”.

“Molte leggende sono nate su quella valle, ma la verità è che non è un posto reale. Passargada è un luogo della mente. E' dentro di noi.” rispose Toro Seduto.

A quelle parole la tribù prese a rumoreggiare, alcuni si alzavano spazientiti, altri discutevano animatamente, i bambini infreddoliti piangevano, Piedi Neri scuoteva la testa poco convinto mentre Toro Seduto rimaneva in silenzio osservavando davanti a sé le ultime luci dell'imbrunire sparire nella notte. La luna piena brillava argentea, contesa tra le stelle e le nuvole. Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere sulla tribù riunita intorno al falò, tutti iniziarono a tornare confusi e scoraggiati verso le proprie tende.
In mezzo a tutto quel trambusto Cavallo Pazzo si alzò e iniziò a camminare allontanandosi velocemente dall'accampamento.
I suoi lunghi capelli lisci si libravano nel vento come erba selvatica e il suo passo era sicuro e forte come quello di un cacciatore che ha appena individuato la sua preda. Poi tutto a un tratto si fermò e iniziò a scavare a mani nude una piccola buca. Quasi nessuno si era accorto di lui, solo Toro Seduto lo osservava con la coda dell'occhio. Quando Cavallo Pazzo ritenne di aver ultimato la sua opera, si tolse il tomahawk che portava sempre legato alla sua schiena e lo seppellì. Poi saltò in sella al suo cavallo, guardò con occhi iniettati di sangue il cielo attraversato dalle saette che velocemente avanzava verso l'accampamento. I tuoni scuotevano la terra e una fitta pioggia cominciava a cadere sempre più intesamente. Cavallo Pazzo si chinò sul suo purosangue e sussurrò qualcosa nell'orecchio dell'animale che nessunò poté udire. Poi strappò un ramoscello di cedro e puntandolo con il braccio teso verso l'orizzonte con un grido si lanciò al galoppo contro la tempesta, scomparendo nelle tenebre.



mercoledì 5 marzo 2014

Cambio

E' da un po' che ho in mente questo articolo e non mi decido mai a scriverlo. Perché non mi sento in grado di farlo. Ma forse nessuno, prima di iniziare qualcosa, si sente mai veramente all'altezza.
Lui alto non lo era affatto e sicuramente avrà vissuto mille situazioni in cui non si sentiva in grado. Di cantare, di scrivere canzoni, di cambiare. Eppure ci provava sempre, e quasi sempre ci riusciva. Soprattutto a cambiare, a spiazzare, improvvisare. E proprio Cambio è il primo album che ho ascoltato di Lucio, anche se all'epoca non lo sapevo.
All'epoca sapevo solo che in quella musicassetta che mio padre ogni tanto infilava nel mangianastri della sua Peugeot c'era Attenti al lupo, e un sacco di altre canzoni che poi sarebbero diventati i miei ricordi d'infanzia. L'avrò cantata chissà quante volte con i miei genitori, i miei primi ricordi musicali sono iniziati con lui. Con una casetta piccola così e tante finestrelle colorate e poi tuighidighidà oh-oh-oh-oooh attenti al lupo !
Ma non pensate che abbia ereditato una passione musicale per Dalla dai miei genitori. Tutt'altro. Di musica “leggera” in casa se ne è sempre ascoltata poca, e quella poca portava lo stesso nome di battesimo, anche se gli artisti erano due. Dalla e Battisti.
Dalla quindi è per me uno che c'è sempre stato, come un nonno, un parente lontano, un amico di famiglia che una volta ogni tanto viene a casa per fare una visita.
Qualche tempo fa mi sono messo a cercare quella vecchia musicassetta, dopo molte ore di ricerca l'ho trovata tra le ante di un mobile del salotto, senza la parte anteriore della copertina. Lasciata lì, come un'inutile, vecchia cosa qualsiasi.
Il giorno che morì, per una strana coincidenza, mi trovavo in macchina. Per un'altra strana coincidenza fu mia madre, anticipando incredibilmente social network e radio, a darmi la notizia dell'improvvisa scomparsa chiamandomi al telefonino. Gridai forte “No!” e i miei amici si voltarono perplessi verso di me, senza capire.
Tornato a casa presi la chitarra e suonai all'infinito Disperato Erotico Stomp. Perché, ripensandoci, secondo me Lucio avrebbe fatto lo stesso, prendendo in giro tutti, come sempre.
Ma se dovessi scegliere una canzone tornerei a quella vecchia musicassetta, quando ancora aveva la copertina color seppia sul davanti e la scritta Cambio. E' l'unico modo che mi è rimasto per tornare bambino.
E così, se solo avessi ancora un mangiacassette funzionante, prenderei una biro e farei scorrere il nastro come facevo un tempo, fino a sentire il fischio di quelle rondini. E poi chiuderei gli occhi, come dice la canzone, con semplicità, tornando di colpo nella vecchia Peugeot di papà.


Buon compleanno Lucio.

venerdì 28 febbraio 2014

Io e Giovanna

Zitto !! Non abbaiare!” - Ad abbaiare stasera, come tutte le sere, era il cagnolino bianco di Giovanna.
Io Giovanna la odiavo.
La odiavo perché trovavo che fosse una portatrice sana di bruttezza e mediocrità. Non era solo il suo aspetto a darmi quest'impressione, ma anche la sua voce sgradevole e volgare, o la sigaretta che perennemente teneva in bocca mentre parlava con le sue amiche del quartiere. E poi quel maledetto cagnolino bianco che abbaiava costantemente a qualunque cosa si muovesse.
Se passava una macchina lui abbaiava. Se passava una bicicletta lui abbaiava. Se passava una persona, un gatto, un altro cane, il postino, lo spazzino, l'arrotino, lui abbaiava. Insomma Cico (è questo il suo nome) non stava zitto un attimo.
Sui cani ho una teoria. La loro intelligenza è inversamente proporzionale al numero dei latrati emessi in media in una giornata. Ve la dico proprio così, in maniera scientifica.
I cani che non abbaiano quasi mai sono i più intelligenti e sono anche quelli che poi ti saltano alla giugulare quando devono farlo. Invece per gli altri vale il detto “can che abbaia non morde”.
Tornando a Giovanna invece si può dire che la sua vita si svolge perennemente in un quadrilatero di poche centinaia di metri. Casa, negozio, tabaccaio, casa. Premete il tasto repeat ed avrete conosciuto la storia della sua vita.
Ma non pensate che Giovanna sia una donna sola. Grazie al comportamento molesto del suo cagnolino bianco è riuscita a conoscere in poco tempo tutto il vicinato, divenendo in breve tempo l'amica e confidente di tutte le altre donne di mezza età, sole, con cane al seguito, che del mio quartiere sono la maggioranza assoluta.
La cosa che proprio non sopportavo di Giovanna era il suo negozio. Non tanto per il fatto che fosse uno dei parrucchieri (lei direbbe hair stylist) più chic della zona, quanto perché lei non ci lavorasse mai. E così, mentre un esercito di shampiste, stagiste, tirocinanti si spaccavano in due per portare avanti l'attività, la nostra Giovanna intratteneva conversazioni sui massimi sistemi sui marciapiede con il primo malcapitato.
Ma non con me. Intuito l'odio che doveva brillarmi negli occhi non appena incrociavo il suo sguardo, io e Giovanna non ci siamo mai rivolti la parola.
L'unico nostro momento di interazione si è realizzato quella volta che stava quasi per investirmi sottocasa mentre guidava il suo gigantesco Suv bianco mentre teneva in braccio il suo cagnolino bianco.
Di Giovanna in fondo io non so niente, anche se alcune cose credo di averle intuite. Per esempio che il bianco è probabilmente il suo colore preferito.
Se la odiavo era sostanzialmente perché lei per me rappresentava tutte quelle esistenze che si sono arrese ad una vita mediocre, sedentaria e vuota.
Ma ancor meglio perché sentivo che anche la mia vita correva il rischio di diventare esattamente così.
E invece ultimamente mi sono reso conto che qualcosa è cambiato. Lei continua a trascorrere i suoi giorni nelle strade del quartiere e il suo cagnolino ad abbaiare, ma da qualche tempo mi sono accorto di non odiarla più.
Non è questione d'abitudine o d'indifferenza. E' stata un'epifania improvvisa ma che deve essere incominciata diversi mesi fa. Solo che non ci avevo fatto caso.
In fondo perché devo prendermela così tanto con la povera Giovanna? Anche se abitiamo a pochi metri di distanza proveniamo da due galassie distinte. E i nostri microcosmi non potranno scontrarsi mai perché distanti milioni di anni luce. Adesso che credo di aver trovato il mio centro di gravità impermanente, il mio habitat naturale in cui rifugiarmi, ho di conseguenza imparato a rispettare il suo. Per quanto squallido mi possa sembrare.
E così stasera, per la prima volta, ci siamo salutati.

Buonanotte, Giovanna.


mercoledì 18 dicembre 2013

Salgari

Secondo Facebook Caffè Mompracem è una donna. Me ne sono accorto quando mi ha scritto “sei stata taggata in una foto”. Mi fa piacere e soddisfazione aver confuso in qualche modo il grande fratello che ci osserva socialmente. Ma vaglielo a spiegare tu a quello stronzo di Zuckerberg che un Caffè o un blog non hanno sesso. Che le parole non hanno sesso e che il verbo taggare dovrebbe essere bandito da ogni vocabolario di lingua italiana. Almeno non lo scriviamo, taggare. Suona anche male.
Oggi comunque non parlerò di niente, anche se poi si finisce sempre con il dire qualcosa. Però ecco vorrei parlare senza dare alcun senso alle cose. No, non voglio dire che voglio dire cose senza senso, dico semplicemente che non voglio darli un senso.
Ma forse, affermandolo, lo sto già facendo. Ok vabbè ricominciamo.
Secondo Facebook Caffè Mompracem è una donna.
Secondo molti Caffè Mompracem è una caffetteria. C'è anche qualcuno che mi ha inviato il suo Curriculum Vitae. “Esperienza pluriennale nei bar, confidenza con la latte art”. Ho cercato cosa sia la latte art, anzi l'ho googlato (!!!), fatelo anche voi. Googlate.
Googlate se gli togliessero una O sembrerebbe uno di quei paesi dell'hinterland milanese, tipo Gallarate, Lambrate, Segrate. Chissà forse esiste davvero, googlate Goglate e poi fatemi sapere.
Un'altra cosa incredibile è che quasi nessuno riesce a pronunciare correttamente “Mompracem”. Ho scelto un nome difficile, lo so. L'ho fatto apposta. Ancor di meno sono quelli che sanno cosa sia l'isola di Mompracem, le tigri di Mompracem, Salgari...ma non importa, non me la prendo, è un nome difficile. E poi se non lo sapete, manco a dirlo, potete sempre googlare e in un attimo è fatta.
Comunque Salgari (ve lo dico in anteprima per non farvi googlare troppo) era uno scrittore italiano, morto più di un secolo fa. Salgari scriveva di terre lontane ed esotiche che non poteva visitare, perché, come molti sognatori, era povero, frustrato e solo.
Sconfitto dai debiti, dalla malattia mentale della moglie e dagli obblighi contrattuali degli editori, prima di suicidarsi lasciò un biglietto in cui diceva:



A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una
 continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni
 che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.”



venerdì 8 novembre 2013

Le mie Dr. Martens


La comparsa delle Dr. Martens non è avvenuta in una data precisa. Raccontano le leggende che i primi a indossarle furono certi operai inglesi, costavano pochissimo, erano resistenti e duravano per molti inverni. Negli anni della contestazione qualche studente le elevò, indossandole, a simbolo della protesta politica, e poi, con quella punta rinforzata che si ritrovano, potevi benissimo sfondare qualche macchina e uscire dai tafferugli con le unghie dei piedi ancora tutte al loro posto.
Negli anni Ottanta delle Dr. Martens si persero un po' le tracce, sappiamo solo che, con l'avvento delle scarpe da tennis e degli appariscenti anni del consumo, a mantenere questi anfibi ai piedi furono solo gli skinhead, i metallari e gli hooligans inglesi. Una roba da poveracci, sfigati perennemente incazzati con la società.

Nonostante le traversie del tempo le Dr. Martens sono arrivate fino ai giorni nostri e, in un buio pomeriggio d'inverno di tre anni fa, fino a me che le acquistai del tutto ignaro della loro storia.
Le comprai, semplicemente, perché mi piaceva la forma, l'aspetto (quelle colorate cuciture gialle sulla gomma scura) e sopratutto perché non le avevo viste in vendita da nessuna parte, erano praticamente introvabili.

Oggi pomeriggio invece con mia grande sorpresa le Dr. Martens campeggiavano in bella mostra nelle vetrine di ogni negozio di calzature della città. Nere, blu, rosse, a fiorellini, a scacchi: i mitici anfibi della working class sono tornati, e, inspiegabilmente fanno anche “tendenza”, come l'eskimo e la kefiah.
Quale logica commerciale ne abbia decretato la rinascita non mi è dato sapere, certo è che il loro prezzo è notevolmente lievitato rispetto a tre anni fa. E l'inflazione in questo caso non c'entra.
Guardando le Converse che ho al momento ai piedi mi vengono ancora a mente le parole del tipo del negozio di calzature mentre le consegnava nelle mie mani con una certa smorfia di disprezzo: “Queste le ho messe a metà prezzo perché sono il modello della scorsa primavera”. Insomma non erano più di “tendenza”.

Alla fine non credo sia giusto demonizzare le mode, il mercato globale o gli altri. Ognuno fa quel che crede e se non sa cosa credere allora crederà a quello cui credono gli altri. Quindi se vestirsi da finti poveri rivoluzionari incazzati con il sistema è diventato una moda non resta che prenderne atto.
Certo è che ad alcuni oggetti ci si affeziona, un paio di scarpe comode, un vecchio maglione sfilacciato sono le più intime e materiali reliquie della nostra anima e dei nostri ricordi. A vederli addosso agli altri ci si sente un po' defraudati, scoperti nell'atto di praticare la segreta arte di essere se stessi. Soprattutto se poi ti accorgi che il motivo per cui gli altri li utilizzano sono del tutto differenti dai tuoi. Perché per me, se non lo aveste ancora capito, indossare le Dr. Martens è un gesto di coscienza e non di tendenza, una questione semi-privata.

Mi domando allora per quanto ancora le potrò mettere ai piedi senza sentir svanire la mia identità in quella degli altri.
E' triste doverlo ammettere ma restare originali nell'era della condivisione totale è un'impresa eroica, come scalare l'Everest. Con le Dr. Martens ovviamente.

sabato 19 ottobre 2013

Novoli


La cosa che sorprende del polo universitario delle scienze sociali di Novoli, Firenze, è che assomiglia veramente a un'università. Ci sono cose normali per una struttura universitaria e quindi straordinarie per uno come me che si è laurato in un palazzo ottocentesco in rovina. Il palazzo ottocentesco della mia vecchia facoltà è semidiroccato e allo Stato costa più tenerlo ancora in piedi che costruirne uno nuovo. Ma non lo fanno, perché il mattone rende solo se si investe nelle case.

Al polo universitario delle scienze sociali di Novoli invece è tutto nuovissimo e pulitissimo. Ci sono enormi aule studio ad ogni piano, tutte piene in ogni ordine di posto di studenti che studiano veramente, in un silenzio che suona di concentrazione, con tanto di divisorio in mezzo ai tavoli per non distrarsi guardando chi si ha di fronte.

Al terzo piano del dipartimento di scienze politiche e sociali ieri c'era il colloquio per l'esame di dottorato. Un cartello avvisa che non si può prendere l'ascensore senza prima consegnare un documento d'identità in portineria. Sticazzi, prenderò le scale. Errore. Dopo tre piani di scale un altro cartello mi avverte che per aprire le porte ci vuole il badge. Il badge è una tessera magnetica ma in italiano non vale.

Al polo universitario delle scienze sociali di Novoli si devono dare una certa importanza, mi dico, altrimenti non avrebbero adottato un sistema di accesso che si ispira a quello della Nasa o della Cia. Forse il dipartimento nasconde documenti essenziali per la storia politica e sociale del nostro paese. Forse qui i professori sono ancora minacciati dalle nuove Brigate Rosse e vanno in giro con la scorta. Forse sono solo molto zelanti. Chissà. Ad ogni modo raggiungo la portineria, il bidello (che se leggesse non mi perdonerebbe mai di averlo chiamato così) mi conferma che per prendere l'ascensore, le scale e l'elicottero (da qualche parte deve esserci anche quello) ci vuole il badge. Il badge. Ma lui adesso non me lo può dare, perché sono finiti, li hanno tutti presi i miei colleghi. Dopo qualche minuto di trattativa lo convinco ad aprirmi le porte dell'ascensore con il suo badge.

Il terzo piano del dipartimento di scienze politiche e sociali del polo universitario di Novoli assomiglia al reparto di una clinica ospedaliera. Privata. Ci sono le luci al neon, la moquette, le stampe antiche della città di Firenze incorniciate alle pareti, la sala d'attesa, con divani in pelle, tavolini con tanto di quotidiani, riviste settimanali e rotocalchi. Cerco la pianta di ficus (simbolo del potere, direbbe Villaggio) ma con un pizzico di delusione mi accorgo che non c'è.
Mi siedo sul divano ma subito mi accorgo che c'è un caldo incredibile. Mi sposto verso la finestra, fuori c'è una bella giornata autunnale, con un sole tiepido che scalda la terra alla giusta temperatura. Guardo fuori e sono contento, anche se le finestre sono bloccate (ci vorrà il badge per aprirle?).

Qui, a Firenze, al polo universitario di Novoli, tutto sembra più grande, più efficiente, insomma, migliore. Di colpo mi rendo conto di quanto sia provinciale la mia vecchia facoltà, ma anche la mia vita. Di quanti limiti si compone la mia mente, di quanto poco basterebbe per buttarli giù (qualcosa da fare, un treno, una mattina d'ottobre) di quanto sia difficile trovare delle idee, costruirsi un progetto che non sia limitante per se stesso. Finora ho solo scambiato la mia provicia con altre province. Arezzo, Pisa, Bordeaux. Che poi era Bègles, una povera banlieu. E' colpa mia, è colpa del mondo, non so.

Un'intervista a un giovane calciatore sulla rivista che ho in mano mi riporta alla realtà. Marco Verratti gioca nel Paris St. Germain da ormai un anno e mezzo. Dice che andarsene da casa a 19 anni gli è pesato molto. E' molto difficile integrarsi a Parigi, dice. Però adesso assicura che del francese capisce tutto, è solo che non riesce ancora a parlarlo. Per il suo compleanno si è fatto un regalo, si è comprato un Suv, bianco, con i vetri oscurati, anche se non ha ancora la patente. Agli allenamenti ce lo porta uno degli chaffeur della società. Non ha nemmeno il diploma di maturità, si è fermato al secondo anno di ragioneria, perché gli allenamenti non gli permettevano di studiare.
A Parigi delle volte si sente molto solo, per fortuna che si portato con sé la fidanzata, il fratello e i genitori. Appena può però torna nella sua Pescara, perché lì c'è tutto, lì non gli manca niente. Alla fine dell'intervista Marco Verratti ci confida che quest'estate stava per tornare in Italia, una grande squadra lo aveva cercato ma poi il club parigino gli ha ritoccato il contratto e lui ha deciso di rimanere. Adesso prende 1 milione e ottocento mila euro l'anno.
- Come hai deciso di investire i tuoi soldi?
- Nel mattone, risponde Marco, mi sono comprato una villa a Pescara, e poi una New York. Non ci vado quasi mai però quando capita è bellissimo, sembra di vivere dentro un film. Però niente è come Pescara, lì non mi manca niente.